Sebastiano D’Onghia, Maestro di cucina e di vita

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di Rossana Novielli

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Sebastiano D’Onghia, l’apprezzatissimo e noto Executive Chef di Miramonte Party a Noci, si concede in un’intervista esclusiva per Enoteca Regionale Puglia, svelandoci i segreti della sua creatività attraverso le tappe della sua lunga e rinomata esperienza in cucina.

Presidente dell’Associazione Cuochi Trulli e Grotte dal 1996 al 2002, Presidente Regionale dell’Unione Cuochi Pugliesi dal 2002 al 2006, sommelier Ais dal 1996, dirige le cucine del Miramonte Party a Noci, una sala ricevimenti tra le più memorabili di Puglia, situata in un territorio di grande tradizione enogastronomica, terra di produzioni casearie e allevamenti al pascolo, oggi anche sede per corsi di cucina amatoriale di prestigio diretti dallo stesso Chef D’Onghia e dal suo brillante staff.

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Sebastiano D’Onghia rappresenta per la Puglia un grande vanto, una personalità carismatica dalle grandi capacità comunicative, dotato di un’eccezionale aplomb, un elemento spesso sottovalutato e di certo in controtendenza tra i ranghi della categoria, sempre più discepoli di urlatori mediatici Ramsayiani.

La sua non è solo una professione ma una missione, dettata dall’amore per la propria terra e per le sue tradizioni, dalla quale trae ispirazione e parla attraverso i suoi piatti. Una profonda conoscenza delle materie prime e un’ecclettica cultura enogastronomica, la cornice che completa la sua originale e incomparabile creatività in cucina.

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Sebastiano, innanzitutto grazie per la tua squisita disponibilità; raccontaci, come è nata la tua passione per la cucina? Quali sono state le tappe della vita che ti hanno portato a capire di voler fare lo chef di professione?

Questa domanda mi fa tornare indietro nel tempo, perché da ragazzino non sapevo di avere una passione; è stato crescendo che ho scoperto di avere dentro di me come un sesto senso, cioè, è come se ad un certo punto, ti rendi conto che tutto quello che tocchi è apprezzato, ti accorgi che piace a te, che piace agli altri e quindi ti dici “forse c’è qualcosa di straordinario in quello che faccio?” E’ allora che scopri la passione. Ma in fondo più che una passione, la cucina per me è un dono che madre natura ti fa e che scopri di avere dentro. La mia è stata proprio una rivelazione, grazie anche agli stimoli ricevuti da chi mi circondava, persone che mi hanno incoraggiato e che hanno apprezzato quello che facevo.

Ho iniziato molto presto a stare in cucina, avevo 11 anni e, quando ho cominciato ad entrare in contatto con il cibo, tutto è diventato una scoperta, a partire dalle cose semplici. Uno stupore che mi ha accompagnato per tutta la vita. Ricordo che quello che mi affascinava maggiormente erano i colori degli alimenti e i profumi che emanavano; la curiosità poi mi ha spinto ad osservare e a sperimentare abbinamenti secondo le emozioni che suscitavano in me. Questo mi ha indotto a voler capire e approfondirne ogni aspetto attraverso lo studio e la ricerca di una cucina più elaborata, guardando a grandi nomi della gastronomia con i quali confrontarsi.

So che hai trascorso parte della tua fanciullezza e della tua adolescenza in un monastero, è lì che hai sperimentato e scoperto questa passione?

Si, in effetti è proprio nelle cucine dell’Abbazia Santa Maria della Scala di Noci, negli anni Cinquanta, che è cominciato tutto; un esperienza fondamentale per la mia vita. Difatti queste scoperte di cui parlavo prima, sono nate proprio lì dove sono cresciuto, a contatto con una realtà che potevo toccare con mano perché avevamo l’orto, allevamenti di agnelli, maiali, conigli, e quindi la possibilità che si potesse passare dal prodotto raccolto fresco, al “cotto e mangiato”, mi ha dato un approccio diverso con gli alimenti, più diretto e senza dubbio più emozionale. Inoltre, come maestri di cucina ho avuto principalmente due monaci, uno parmense e l’altro padovano, i quali mi raccontavano che nelle loro famiglie di origine, parliamo all’incirca degli anni ‘30, era largamente diffusa l’usanza di macellare i maiali, per poi trasformarli in salumi, insaccati o prosciutti destinati all’autoconsumo. E’ cosi accadeva anche in convento, dove si produceva di tutto, dalle conserve ai salumi, ai prodotti ortofrutticoli, all’olio, ai prodotti caseari, persino il burro, per la cui realizzazione utilizzavamo una piccola zangolatrice a mano; e poi, tra le mie passioni, c’era l’apicoltura, che curavo personalmente.

Devo dire che questa formazione di base in monastero mi ha permesso un approfondimento tale da valorizzare anche la cultura del prodotto, cosa difficilmente riscontrabile in altri ambienti, poiché di solito un cuoco o chi esce dalla scuola alberghiera, non ha un approccio al cibo di questo tipo, cioè passando dalla coltivazione del prodotto appena raccolto alla sua trasformazione e utilizzazione in cucina, senza trascurare l’aspetto istruttivo. Normalmente non si hanno a disposizione derrate alimentari così a portata di mano, perché, per quanto freschi possano essere quelli presenti sul mercato, subiscono comunque un passaggio di stoccaggio e conservazione che da un risultato diverso in termini di qualità organolettiche.

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Dal Medioevo in poi i monasteri sono stati i promotori e i custodi della cucina mediterranea in tutto il mondo, diffondendo la triade alimentare grano, vino e olio quali elementi essenziali, ai tempi, per regole monastiche dettate da regimi alimentari precettistiche; questa restrizione in qualche modo ha stimolato la creatività dei monaci alla realizzazione di piatti semplici ma gustosi, alternativi alla carne. Oggi, l’attenzione per le materie prime o l’accuratezza nella scelta degli abbinamenti è rimasto un elemento rilevante nell’organizzazione delle cucine di determinati monasteri, si può dire che era così anche durante il tuo soggiorno?

All’epoca l’Abbazia della Scala era anche collegio e probandato che accoglieva un totale di 120 persone per le quali si preparavano tre pasti al giorno. Dunque, sebbene non si potesse definirla una cucina da ristorante, era necessario diversificare il menù ogni giorno e da questa necessità nasceva l’esigenza di inventarsi sempre abbinamenti diversi, un elemento che mi ha dato stimoli a creare sempre qualcosa di nuovo con le stesse derrate alimentari. All’età di 17 anni ero già a capo di tutte le cucine del monastero, anche se il banco di prova è stato la leva militare quando, lavorando nelle cucine della mensa ufficiali, ho ricevuto apprezzamenti e incoraggiamenti tali, da farmi capire che quello di fare lo chef era il mio destino.

Considerato che ovviamente nei monasteri non si segue più, come in epoche remote, il rigore alimentare dei digiuni, come cambiava la cucina nei periodi di Quaresima o nei così detti periodi di “mangiare di magro”?

Questo rigore nell’alimentazione era ridotto al solo periodo Quaresima, durante il quale non si mangiava carne, per cui in alternativa molto spesso si utilizzava il baccalà, un pesce molto versatile dal quale cercavo di tirare fuori ogni possibile variante e abbinamento gastronomico. Un esercizio utile che ha stimolato parecchio la mia creatività.

Quali sono gli elementi in cucina dei quali non puoi fare a meno e che ritieni non debbano mai mancare nella preparazione di un piatto?

Una componente essenziale per la realizzazione delle mie ricette sono le erbe aromatiche, così come alcune spezie, ma non tutte, di solito quelle di più facile reperimento; cosi come il pomodoro, anche solo per la caratteristica cromatica che dona all’aspetto di un piatto.

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Si può senz’altro dire che la tua è una cucina dal sapore regionale, tradizionale ma al tempo stesso ricercata e attenta alla qualità del prodotto. Come consideri quelle rivisitazioni che a volte snaturano la vera essenza di una cucina essenziale e semplice come quella di origine contadina?

Personalmente sono convinto che la tradizione sia importante ma decisamente con un occhio all’innovazione e ad abbinamenti nuovi, a volte anche insoliti rispetto al passato. Questo ieri non era possibile, anche perché se si cucinava un prodotto, per esempio i ceci, uno dei legumi più caratteristici della nostra cucina, lo si faceva per sfamarsi, considerate le precarie condizioni economiche; mentre oggi si possono osare abbinamenti di questo alimento impensabili, come con l’aragosta, seppure a volte l’esigenza di stupire e incontrare la soddisfazione del gusto vanno a discapito dell’aspetto nutrizionale, non equilibrando correttamente i diversi principi nutrivi. Dunque rivisitazione della tradizione si, ricercando anche nuove sensazioni in giusto equilibrio con la personalità dello chef.

C’è un piatto con il quale potremmo identificare la tua cucina  o quello che la rappresenta in qualche modo?

Se mi guardo indietro e ripercorro con la memoria gli anni passati, mi accorgo che in ogni periodo in cui creavo un piatto nuovo e che poi ha avuto particolare successo, sentivo di aver raggiunto il risultato sperato; questa era la cosa che mi gratificava di più, perché a prescindere dal fatto che ogni preparazione parli di me, della mia personalità, quello che conta alla fine è che piaccia agli altri. Per cui identificarmi con un piatto in particolare mi risulta difficile; tra l’altro, non prediligo mai un alimento in particolare e ogni piatto è sempre stato così diverso dall’altro, che alla fine non potrei preferirne l’uno rispetto all’altro.

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Per molti anni sei stato docente di cucina di scuola alberghiera, cosa ti ha dato in termini di feedback questa esperienza con i ragazzi?

Ho lavorato per circa trent’anni come docente negli Istituti Alberghiero di Castellana Grotte e Bari, e qui ho scoperto di avere anche una predisposizione all’insegnamento, forse anche reduce della preparazione “claustrale” che mi ha formato per affrontare questo compito e poi, sono del parere che insegnando agli altri insegni a te stesso.

Di conseguenza, in primis, mi sono dedicato allo studio (e non si smette mai) delle tecniche di cottura, sia da un punto di vista pratico che scientifico, approfondendo le trasformazioni degli alimenti in cottura. Essenziale è stato anche il confronto con i colleghi, sia della stessa materia, sia di scienze della alimentazione e di merceologia degli alimenti. Lo studio è proseguito anche con corsi di specializzazione atti a sperimentare nelle cotture, i tempi e le temperature più idonee per ottenere dall’alimento la miglior consistenza, salubrità, il miglior mantenimento dei colori, dei sapori, dei valori nutrizionali, senza trascurare la presentazione dell’alimento stesso.

Ricordo l’entusiasmo dei ragazzi quando collaboravano alla realizzazione di un piatto, il loro stupore nel vedere la trasformazione da materia inerte a piatto finito, bello da vedere, da far venire “l’acquolina in bocca” e soprattutto buono da gustare. Forse non tutti gli allievi di allora oggi praticano la professione, ma sono sicuro che in ognuno di loro ho trasmesso il “rispetto del cibo” che madre natura ci dona, la capacità di saperlo “condividere” con gli altri, e la stima per di chi lo produce e prepara.

La mia più grande soddisfazione è quella di ricevere ancora oggi la visita di miei ex alunni che vengono a trovarmi per ringraziarmi e ai quali, a loro dire, sono serviti i miei insegnamenti.

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Cosa consiglieresti oggi a chi vuole intraprendere questo mestiere, in virtù anche di nuove frontiere quali show-cooking e format televisivi che hanno lanciato una nuova figura professionale, tra lo chef e l’uomo di spettacolo?

Far da mangiare agli altri è un atto d’amore, ed è un servizio che bisogna fare con tutte le attenzioni possibili, dall’igiene alla scelta del prodotto, dalla sua manipolazione, alla sua conservazione. I giovani che oggi ambiscono a fare questo lavoro dovrebbero scoprire innanzitutto di avere questa propensione a dare senza pensare di ricevere. Anche perché per quanto venga pubblicizzato, di questo mestiere bisognerebbe capire quanto lavoro ci sia dietro, quanto impegno sia necessario per creare un piatto. La spettacolarizzazione della cucina può senz’altro essere utile perché la cucina è anche arte, negli abbinamenti, nelle forme e nelle consistenze, quindi è giusto che ci sia, ma dovrebbe passare il messaggio che questo comporta sacrificio, anche se quando parlo di atto d’amore non vorrei parlare di sacrificio, perché sono convinto che se fai qualcosa con amore non ti sacrifichi, lo fai perché senti di farlo, nonostante le molte rinunce.

C’è uno chef a cui ti sei ispirato o del quale apprezzi particolarmente la cucina?

Uno dei primi chef che mi ha colpito è stato Paul Bocuse, uno degli chef più grandi del XX secolo e padre della Nouvelle Cuisine e senz’altro Gualtiero Marchesi. E poi mi ha dato molto l’amicizia con Sergio Mei, Executive chef del Four Season di Milano, un uomo e un professionista di grande spessore, conosciuto alla scuola dell’Etoille diversi anni fa, con il quale ho instaurato da allora, un bel rapporto di amicizia e di confronto dal punto di vista professionale.

Adesso lavori a tempo pieno in questa struttura, il Miramonte Party, quali sono i progetti ai quali stai lavorando?

Collaboro con il Miramonte Party da diverso tempo e da allora sono stati raggiunti grandi risultati, con mia grande soddisfazione. Per la realizzazione di banchetti nuziali abbiamo utilizzato tante altre strutture affidatarie; tutt’ora effettuiamo servizio catering presso ville e strutture private e poi da sempre c’è il ristorante, insieme a corsi di cucina amatoriali aperti a tutti.

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Ci lasciamo con una stretta di mano, ma la sensazione andando via è stata che questa intervista, nata con l’intento di far parlare di se un maestro di cucina di affermata esperienza, abbia lasciato il passo all’uomo, grande saggio e maestro di vita.

Grazie Sebastiano e buon lavoro!

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